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26 ottobre 2010

Il sentiero del buddismo


Il buddismo risale a quando Guatama Siddhartha (563-478 a.C., secondo le maggior parte delle fonti), rampollo del clan degli Càkya, decise di conseguire l'illuminazione.
Egli non si era basato sui principi delle scuole filosofiche o su tecniche di meditazione specifiche, ma soltanto sulle proprie intuizioni. Così, riuscì a diventare un Buddha ("svegliato" o "illuminato").
Dopo varie esitazioni, nel timore che l'umanità non fosse pronta a recepirne gli assunti, Buddha si decise finalmente a divulgare la sua dottrina, cioè il proprio training personale. E lo fece al Parco delle Gazzelle, nel suo celebre Sermone di Benares.

La teoria delle "quattro nobili verità" è il fondamento del discorso. Si tratta delle seguenti:
  1. La vita è piena di dolore;
  2. la sete di esistere è l'origine del dolore;
  3. la sete di esistere può essere soppressa;
  4. esiste un cammino, in varie fasi, che permette di estinguere la sete.
Buddha non è pessimista: egli ammette che l'esistenza è caratterizzata dal dolore, ma proclama, nel contempo, la possibilità di estinguerlo. Formula così una diagnosi della malattia, imputandone le cause ai desideri e alle passioni, per poi prescriverne la terapia, vale a dire l'etica, opportuna.
Colui che si attacca all'esistenza, è vittima della sofferenza. Egli invece si dovrebbe rendere conto della costante transitorietà delle cose, per cui niente sussiste in eterno. E' una trasformazione della mentalità, l'adozione di una nuova consapevolezza che dovremmo coltivare, se vogliamo accogliere i suggerimenti di Buddha.
Per indicare le varie modalità con cui gli esseri senzienti si consegnano al dolore, Buddha enunciò poi la dottrina della "produzione condizionata". Si tratta di dodici anelli (nidàna), ciascuno dei quali determina il successivo, nella seguente progressione.
L'ignoranza (avijjà) è la condizione di partenza: la natura autentica delle cose è del tutto inaccessibile. Su questa base si determinano le impressioni (sankhàra), alimentando un substrato karmico. (...) Sulla base delle impressioni, sorge la coscienza individuale (vijnnàna), cioè l'illusione di costituire un'entità specifica.
Così, un centro individuale finisce per attribuirsi una configurazione corporea; il termine nàmarùpa significa letteralmente "qualcosa che ha nome e forma".
Una volta che si sia consapevoli di avere un corpo, si possono avere esperienze correlate agli organi sensoriali (salàyatàna). Essi entrano in relazione con le cose, attraverso il contatto (phassa). La sensazione (vedanà) è il risultato dell'incontro tra i sensi e i rispettivi oggetti. A questo punto, le cose vengono desiderate: è il momento della sete (tanhà). L'attaccamento (upàdàna) è la voglia di ripetere le esperienze piacevoli, rifuggendo dalle spiacevoli.
Si ha ormai la convinzione che le cose siano soggette al divenire (bhava): che esista un "prima" e un "dopo", quindi il tempo.
Tutte le condizioni per la reincarnazione sono già presenti: così, avviene la nascita (jàti).
Da qui derivano tutte le ulteriori conseguenze dell'attribuzione di un'esistenza individuale: la malattia, l'invecchiamento e la morte (il termine jaràmarana caratterizza l'ultimo anello, quindi questi fenomeni).
D'altra parte, basterebbe annientare l'ignoranza per attingere una visione totalmente differente delle cose. Buddha esorta l'uomo a liberarsi, traducendo in azione la propria consapevolezza. Avendo sempre in mente la transitorietà della realtà, si dovrà agire senza attaccamento.
In fondo, la stessa reincarnazione è illusoria: è soltanto l'effetto di una concezione erronea della vita. Buddha sa bene che il legame con il ciclo delle nascite e delle morti è determinato dall'ignoranza, e non ha un'esistenza effettiva. Secondo la legge della produzione condizionata, ogni anello dipende da un altro: troncandone uno, si realizzano le condizioni perchè ne vengano meno altri.
Per sollecitare i suoi discepoli alla produzione della consapevolezza autentica, e per venire incontro alle esigenze di quelli immaturi o meno accorti, Buddha enunciò le otto fasi di un percorso etico ottimale.
  1. Retta visione. La realtà dev'essere vista come un flusso costante, in cui niente permane. E' la condizione mentale preliminare all'addestramento.
  2. Retto scopo. Ogni azione deve corrispondere a una finalità etica prestabilita, in modo da risultare in armonia con tutti.
  3. Retta parola. L'adepto sarà sempre sincero con il prossimo, astenendosi dalle critiche inutili.
  4. Retta azione. Ovvero: assoluta correttezza nell'operato, nell'eliminazione di qualsiasi tendenza egoistica.
  5. Retto moto di sostenersi. Verrà scelta un'occupazione lecita, che non rechi alcun danno alle creature.
  6. Retto sforzo. Ogni attività quotidiana dovrà essere svolta cercando di dare il meglio di sè, attraverso un perfetto controllo delle passioni.
  7. Retta concentrazione. Si imparerà a concentrarsi su un oggetto, un punto o un'attività, al fine di esercitare l'attenzione e attingere la conoscenza intuitiva. E' la condizione preliminare, parzialmente mutuata dallo Yoga, alla fase successiva.
  8. Retto raccoglimento interiore (samàdhi). Il termine è prelevato dallo Yoga, e allude a una pratica meditativa impeccabile, condotta con estrema consapevolezza e nel totale dominio di se stessi.
Accanto a questa parte "costruttiva", esiste una parte "distruttiva" dell'insegnamento del Buddha, non meno significativa. Ai discepoli che insistevano a porgli questioni metafisiche, l'illuminato replicava con un "nobile silenzio". In effetti, si limitava a comunicare le nozioni utili ai fini della liberazione.
E' un importante monito alle filosofie e alla razionalità concettuale. Buddha si dichiarava "libero dalle opinioni". Non è certo con la riflessione speculativa che si potrà raggiungere il nirvàna, cioè l'interruzione del "ciclo delle nascite e delle morti" (samsàra).
Il filosofo viene paragonato a un ferito che, anzichè farsi medicare, vuole sapere chi lo ha colpito, di quale materiale è composta la freccia, e così via. Quest'uomo si perde in questioni irrilevanti, trascurando l'essenziale.
Ma il buddismo non è, a sua volta, una dottrina, infarcita di speculazioni varie? Buddha affrontò la questione con una parabola, com'era solito fare. E paragonò la sua dottrina a una zattera, utile per arrivare da qualche parte, ma che poi va accantonata, una volta raggiunto lo scopo o la terraferma. Il valore dei principi buddisti è puramente strumentale: attinta l'illuminazione, essi si rivelano superflui, per non dire paralizzanti. Il buddismo è dunque una sorta di "non insegnamento", una dottrina che annulla se stessa. (...)
Buddha voleva che ciascun individuo riuscisse a illuminarsi da sè, senza affidarsi alle teorie altrui o alla speculazione. In effetti, il suo stesso addestramento nelle scienze filosofiche, compiuto sotto la direzione di due maestri influenzati dalle scuola Sàmkhya e Yoga, non aveva prodotto alcun esito. Soltanto quando Buddha capì che doveva basarsi su se stesso, senza dipendere da alcuna guida, raggiunse l'illluminazione.
Si può anche osservare che la tecnica di meditazione, impartitagli dai suddetti maestri, svolse un ruolo secondario, riguardo al conseguimento dell'illuminazione. Nonostante ciò, Buddha la consigliò ai suoi discepoli - probabilmente a quelli meno consapevoli, che non avevano sufficiente fiducia in se stessi.
Buddha ci ricorda che nessuna tecnica risulta efficace, se il praticante coltiva una mentalità dogmatica e dipende acriticamente dalle parole de maestri. (...)
Buddha, infine, aveva predicato l'esigenza di sbarazzarsi del pensiero dualistico... Tutti coloro che ragionano in base agli opposti (vita/morte, io/altro, ecc.) perdono di vista il flusso, cioè l'immediatezza della realtà, il suo carattere di impermanenza.
"Liberarsi dalle opinioni" significa cogliere la costante correlazione delle cose, ovvero l'impossibilità di separarle rigidamente l'una dall'altra.

Da "La filosofia indiana" - Leonardo V. Arena


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